Correva l'anno 1957 e anche mia nonna, classe 1921, riceveva nel suo percorso formativo dell'Unione Donne di Azione Cattolica Italiana un "opuscolo" sulla Dottrina Sociale. Due considerazioni: almeno in certi contesti, i messaggi formativi socio-politici degli anni Cinquanta erano più avanzati rispetto a come siamo abituati a rappresentarceli oggi; alcune consapevolezze iniziavano a venire diffuse a livello popolare, con tanto di imprimatur. Oggi può sembrarci poco, ma forse non lo è. Tuttavia - ed è la seconda e più lunga considerazione – la consapevolezza e l'informazione, pur essenziali, non sono sufficienti a produrre dei cambiamenti. Creano uno spazio di adesione ideale importante, che però può limitarsi, appunto, al mondo delle idee. Temo che ancora oggi, specie nella dimensione pubblica, continuiamo a immaginare che la cultura della parità, del rispetto e della non violenza, possa crescere anzitutto trasmettendo idee.
Il piccolo opuscolo del 1957 sta lì a dirci che diverse buone idee (altre se ne sono aggiunte nel tempo, certamente) sono in circolazione già da un bel po' di tempo, rimanendo però lettera morta o in coma farmacologico. Che cosa è mancato?
Forse non semplicemente un set ancora più rifinito di pensieri e prontuari per ambiti (lavoro, carriera, affettività, sessualità...), ma qualcosa di molto più pratico, che si potrebbe riassumere in una "iniziazione" alla vita morale tout-court, per tutti, senza differenza di genere. Una iniziazione fatta di operatività, di esercizi, di assaggi, capace di allenare a qualcosa di moralmente essenziale: la disponibilità a dedicare tempo ed energie ad altri e a sottrarli – perché né il tempo, né le risorse sono infiniti – alla cura del proprio. Mi sembra che tratto comune di tante tragedie di questo nostro tempo sia la forma mentis del "tutto intorno a me", dell'eccessivo amore di sé – la philautia che troviamo diagnosticata fin dai tempi di Platone – da cui non si guarisce con le idee, ma mettendosi a fare qualcosa "a fondo perduto" per altri, in modo sistematico, non episodico. Lungo questa strada tutti possiamo imparare a decentrarci, a fare spazio, a lasciare ad altri: possiamo allenarci a quelle perdite che sono forme della fatica ma non del male, per quanto possano superficialmente assomigliarsi.
È una iniziazione semplice e difficile allo stesso tempo: non ci vuole molto per attivarla in termini di risorse – non occorre lo Stato, ma occorre una società civile, con comunità, associazioni, movimenti che certo non mancano – ma ci vuole molto per scegliere di intraprenderla, perché il gesto dell'offrire tende a essere più raro in un tempo in cui tutto si orienta al difendere, al lascare fuori, al proteggere il proprio.
Ci vuole molto perché, al di là dello stesso clima politico-culturale, rimane che la resistenza al mettersi a disposizione è un tratto che ci caratterizza antropologicamente, in lotta con quella parte di noi che invece ne riconosce il valore e la bellezza. Per questo occorrono accompagnamento e gradualità, e per questo la parola "iniziazione" mi pare rimanere la più adatta.
Riusciremo a guardare in questa direzione, e a non accontentarci di rifinire le idee puntando solo sulla formazione intellettuale?
Davanti alla diversità dei collassi di umanità a cui assistiamo continuamente mi pare sempre più vera la consapevolezza semplice delle grandi forme di sapienza filosofica e religiosa: adulto lo diventa davvero chi impara a perdere allenandosi nel dare; quando la vita porterà via qualcosa, troverà dentro di sé il più potente argine contro la violenza e la restituzione del male, di cui tutti siamo sempre capaci.