Lunedì è stata una giornata di festa, e vorrei che il mio grazie raggiungesse tutte le persone che mi hanno fatto gli auguri, in un abbraccio corale a tre cifre (quella dei benauguranti, non ancora quella della mia età, per quanto sia vero che essendo vecchio dentro potrei essere coevo di Tommaso d’Aquino).
Vorrei anche dirvi che ogni festeggiamento lo avverto come controverso in questo tempo, soprattutto la festa della Pasqua.
Mi sono sentito dentro la Storia nei giorni in cui le liturgie cristiane hanno fatto memoria della passione di Gesù di Nazareth: i Vangeli offrono una prospettiva precisa del male di cui siamo capaci, in cui siamo avvolti e da cui – questo mi pare antropologicamente vero – non riusciamo a liberarci, se non immaginando che la via sia quella di infliggere altro male. Il rifiuto – sistematico, ripetuto, quasi esasperante – di Gesù di imboccare la via della violenza per affermare la giustizia, mi affascina e mi lascia interdetto. Capisco di non esserne capace, e mi chiedo se, in fondo, non sia proprio questo che chiediamo di fare ai belligeranti, come se fosse un’ovvietà. Come ha scritto René Girard, «per far cessare la guerra, non basta convincere gli uomini che la violenza è odiosa; è proprio perché ne sono convinti che si sentono in dovere di vendicarla». Il veramente difficile è proprio fermare quella violenza che sta rispondendo ad una violenza subita in precedenza, quale che sia. Detto altrimenti: il veramente difficile è fermare il male nella Storia. È un’impresa che forse solo un Dio può compiere.
Ecco, mi sono ben ritrovato dentro questa Storia in controversa attesa di una liberazione, davanti alla costante tentazione di porre fine alla violenza con una “violenza ultima” come ancora direbbe Girard. E davanti a questo specchio tirato a lucido nella memoria della Passione si sciolgono presto i motivi per fare festa, non può che prevalere il senso del tragico.
Oltrepassare questo punto è difficile. La liturgia cristiana della notte di Pasqua è un trionfo di superlativi che celebrano la vittoria sul male e sulla morte, eppure da duemila anni la Storia dei nostri tentativi di fare giustizia attraverso la violenza e il male non si è affatto interrotta. E quest’anno ce ne accorgiamo un po’ di più, ma solo perché tutto accade un po’ più vicino, non perché nel mondo fino a ieri ci fossero pace e armonia. Quest’impresa, di fermare il male nella Storia, evidentemente non l’ha compiuta nemmeno un uomo straordinario che non ha concesso un solo millimetro alla logica del male, non l’ha compiuta nemmeno quest’uomo che alcuni di noi – e io sono tra questi – credono sia il Figlio di Dio.
E allora, che cosa c’è da festeggiare?
La Storia, di per sé, non ci autorizza a intonare un exultet, e questo inno liturgico che è risuonato nella notte di Pasqua appare quasi un insulto mentre lì fuori imperversa il male. Se si vuol essere fino in fondo umani, se si vuole tenere gli occhi aperti sull’andar del mondo, e lasciarsi toccare da fatiche e sofferenze senza l’anestesia del divertimento costante, c’è ben poco da festeggiare.
Perché la festa abbia un senso occorre allora pensare una cosa stranissima: che l’autorizzazione a gioire non debba venire dalla Storia, da come vanno le cose, nel piccolo o nel grande. In ogni momento delle nostre storie ci sarà sempre almeno una nota in tonalità minore, una evidenza di male, un tratto tragico che premeranno sulla coscienza per indurre a compostezza, a uno sguardo più basso, anche – e non è affatto poco – in nome della solidarietà con chi sta peggio.
La cosa stranissima è che la Pasqua autorizza a gioire proprio dentro questa Storia e senza sospendere nemmeno per un istante la consapevolezza lucida e profonda dello svolgersi del male. Sentirsi autorizzati a gioire nonostante il tragico, e non perché distratti, rassegnati o cinici, è qualcosa che sorprende la coscienza morale umana e che ha un sapore davvero difficile da descrivere. Potrebbe – azzardo – essere uno dei sapori della vita risorta con cui si chiudono i Vangeli. Potrebbe essere la scintilla sorprendente, letteralmente contro-versa, capace perfino di farci ritornare con piglio diverso nei nostri piccoli o grandi calvari e di compiere quel che la Storia, umanamente, non prevede.