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PUNTO A CAPO. UN ANNO DOPO

Un anno fa usciva una raccolta di riflessioni sulla città di Trieste – e di visioni di futuro – a cui ho contribuito, intitolata “Punto a capo. Trieste. Oltre il Covid. Per ripartire insieme”, sollecitata da Francesco Russo. Trovo utile riprendere in mano le cose scritte a distanza di tempo, è un modo per verificare intuizioni e misurare difetti di analisi (che non mancano mai) e l’ho fatto anche questa volta: il ballottaggio per l’elezione del sindaco ha reso la rilettura più stimolante, perché in questo “frattempo” è maturata la scelta di Francesco di presentare la sua candidatura, c’è stata una campagna elettorale e lunedì la città arriverà al suo “dunque” per il prossimo quinquennio.

Un anno fa i primi pensieri andavano alla lentezza dei trasporti: vai a Trieste e ti sembra di entrare nell’Ottocento, e non è solo una questione di architettura urbana, ovviamente. Mentre scrivo sto andando al Salone del Libro di Torino: tra la città del Lingotto e Milano ci sono circa gli stessi km che separano Trieste e Mestre. Solo che a Occidente si percorrono in un’ora, a Oriente in poco meno di due. E sempre di Italia si tratta.

Mentre continuo a pensare che sia un problema serio, ho però davanti agli occhi la protesta di questi giorni di molti lavoratori portuali, che rischia di riportare una parte di città non nell’Ottocento – che allora il Porto era una gran cosa – ma agli anni, non così lontani, che precedono l’arrivo di Zeno D’Agostino. E cerco dei nessi con le riflessioni di un anno fa.

È interessante esaminare la mentalità anti-green pass, che, tra l’altro, non è neppure del tutto sovrapponibile a quella no-vax. I binari su cui si è instradato il dibattito non credo siano però la pista da seguire: la questione dei diritti (al lavoro, certo, ma non si esaurisce qui il dettato costituzionale) temo che sia una “razionalizzazione”, cioè un modo per spiegare ex post a se stessi e ad altri una contrarietà e una resistenza che non nascono certo da approfondimenti del diritto costituzionale. Le razionalizzazioni si riconoscono perché nel dibattito si traducono immediatamente in questioni di principio, che si risolvono in richieste intransigenti di riconoscimenti o benefici per se stessi, o per il proprio gruppo. È l’approdo rapido alla rivendicazione di un privilegio o di uno sconto, presentato come diritto, che svela la razionalizzazione e che suggerisce di cercare al là o al di sotto delle spiegazioni offerte.

L'opinione pubblica in queste ore ha "fiutato" il dietro le quinte e con gli esempi paradossali più vari ha rimproverato coralmente un'unica cosa a chi protesta per la soluzione del green-pass: si chiede un vivere restituito alla normalità (cosa a cui le Istituzioni hanno puntato efficacemente attraverso lo sviluppo e la somministrazione capillare del vaccino) senza però assumersi insieme agli altri concittadini il rischio minimo, ma pur sempre reale, della vaccinazione, né in alternativa gli oneri di una verifica costante dello stato di salute (leggi: tamponi). "Rivendicate benefici ma non siete disponibili a sostenerne i costi", ecco il rimprovero.

Mi pare di ritrovare questo problema nelle righe che annotavo un anno fa: «Per far funzionare meglio le cose occorre ritrovare un senso autentico della giustizia, che è fatto non solo di rivendicazioni individuali, ma anche di solidarietà nelle perdite, nell’assorbire i costi degli imprevisti, nel rinunciare a benefits personali che si davano per acquisiti. Il bene comune è sempre legato alla giustizia, ma non per questo alla ricerca del massimo vantaggio personale o di categoria».

Nel ritrovare e riproporre questo pensiero ora spezzerò una lancia proprio in favore dei no green-pass e no-vax, costringendovi – se non altro per curiosità e per pochissime righe ancora – a proseguire la lettura.

Lo faccio dicendo che, a ben guardare, la questione dei tamponi gratuiti è solo uno degli innumerevoli punti di applicazione della prospettiva “sì a i benefici, no agli oneri” o – se volete – “privatizzazione degli utili e collettivizzazione delle perdite”, “rivendicazione di diritti e dimenticanza di doveri”. Questa manovra in effetti la facciamo un po’ tutti, solo in contesti diversi e il punto è che non si tratta di un modo di fare dei “tempi moderni” o di una fascia della popolazione che non si fida della ricerca scientifica, ma di una tensione costante che troviamo in noi stessi da che mondo è mondo e che i teologi antichi – beata semplicità concettuale – chiamavano, per capirsi, “peccato originale”.

I no green pass oggi mi riescono più simpatici: mi ricordano quella mia stessa inclinazione al pretendere senza dare, contro cui cerco di lottare, e che anche in me si trasforma alle volte in sofisticate razionalizzazioni, che mi cristallizzano nelle mie pretese rendendomi sordo alle esigenze e alle fatiche degli altri.

Mi sento sulla stessa barca, cioè a fare i conti con le stesse resistenze, anche se magari in me si applicano ad altre questioni.

In questa simpatia mi sento anche di dire che noi tutti ci rimettiamo quando perdiamo coscienza di questa lotta interiore, quando pensiamo che il male stia sempre dall’altra parte, quando vediamo noi stessi solo come vittime. Ci rimettiamo perché non vedendo più l’origine del male (comune) rischiamo di non riconoscerlo quando lo facciamo. Solo così un danno ad altri o al Paese può – illusoriamente – apparire come un bene o come una via di giustizia.

Rileggendo le poche pagine che avevo affidato a Francesco ritorno a considerare che la vita politica delle nostre città è appesa al filo invisibile delle nostre vite spirituali. È affidata alla vigilanza delle nostre coscienze rispetto alle inclinazioni deteriori che ci attraversano e ci provocano, con fare suadente, a pensare anzitutto o esclusivamente a noi stessi e al nostro gruppo. A esigere senza contribuire.

Sono pensieri un po’ bizzarri alla vigilia di un ballottaggio, ma forse non sono del tutto estranei rispetto a una riflessione sull’impegno politico. In ogni caso mi piace anche pensare che Francesco Russo – a cui devo la riflessione di un anno fa – possa spendersi come sindaco a Trieste, accrescendo il volume di cose buone che possono nascere da questa città in cui si arriva solo con pazienza.