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BUON (PERICOLOSO) NATALE

Anche Massimo Gramellini con Il Caffè di giovedì 14 dicembre ha espresso le sue rimostranze per la rimozione del Natale dall’immaginario collettivo, questa volta prendendo spunto dalla «illuminante decisione della scuola milanese Italo Calvino» di ribattezzarlo la «“grande festa delle Buone feste” per non urtare la sensibilità di chi non festeggia il Natale». Corrosivo, come spesso riesce a essere, ha concluso lapidario: «Esiste un modo infallibile di non offendere la sensibilità degli altri ed è smettere di averne una propria. Ci stiamo arrivando». La notizia, in sé, si rivelata essere una (mezza) fake news*, ma il tema non lo è. La questione dell’attenzione alle sensibilità altrui, giocata in questo modo, non convince neanche me. È soprattutto l’«altrui» che non mi convince: mi sembra il nobile manto di dichiarazioni ospitali steso su una più granitica e celata intenzione di badare anzitutto a se stessi. C’è una antica storia di Natale che svela per noi questa doppiezza d’animo con cui tutti facciamo i conti, forse aiutandoci a capire che nello spirito delle ricorrenze neutre,  se promosse dalle istituzioni, non c’è nulla di radicalmente nuovo ma, più modestamente, il riemergere costante delle paure da cui proprio il Natale – o, più precisamente: Gesù Cristo – viene a proporci una via di liberazione.

La storia antica l’abbiamo sentita tante volte, da bambini magari: è quella dei Magi venuti da Oriente. Che fossero tre è la tradizione a dirlo, ma magari erano di più. Il vangelo di Matteo usa un plurale e viene da pensare che non fossero pochi, perché devono aver creato un po’ di scompiglio, visto che alle loro domande «Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme». È una città non esattamente di piccole dimensioni, la capitale, che si accorge dell’arrivo di genti diverse che straparlano della nascita del «re dei Giudei».

Erode era verosimilmente alla fine del suo mandato (morirà nel 4 a.C.) e non doveva aver fatto neanche troppo male dal punto di vista politico: a lui si deve la ricostruzione del tempio e l’attuazione di un piano edilizio che aveva interessato tutti i territori della sua giurisdizione. Insomma: grandi opere e magari un buon piano casa, con detrazioni al 55% per le ristrutturazioni. Trent’anni di governo del fare insomma, anche se ormai si era Provincia Romana. Però queste genti d’Oriente – e siamo in Medioriente – turbano lui e la città. C’è sempre qualcuno più a Oriente che quando arriva crea scompiglio.

Re Erode non è un romano. Siede sul trono di Davide. D’accordo che il potere vero ce l’ha Cesare, ma di cultura Erode è Giudeo, altrimenti non sarebbe Re. Eppure cade dalle nuvole quando arrivano questi che, in effetti, non dicono nulla di strano: dicono che è arrivato il Cristo atteso. Atteso non dai romani: atteso dal popolo d’Israele. Cade dalle nuvole e cosa fa? «Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo».

È interessante che Matteo rilevi che Erode mancava di quel minimo di memoria culturale di se stesso – Re regnante dei Giudei – che gli avrebbe consentito di capire di che cosa andavano blaterando quei bizzarri orientali. Aver perso memoria culturale non è il problema: è il segno di aver perso qualcosa di più rilevante, il senso del regnare in Israele che è un servire nell’attesa del Regno di Dio. Però una cosa bisogna riconoscerla: Erode si informa. E trova almeno le risposte culturali di cui non aveva ricordi. Non che questo sia sufficiente a capire il senso del Natale (di ora come di allora), sia chiaro. Però almeno Erode è un amministratore che sembra interessato a capire che cosa si è perso, se la faccenda è seria, se può avere qualche impatto sul potere politico. Sa di non saperne più nulla delle attese profonde del popolo, è evidente che non le reputa serie, ma fiuta che potrebbero essere di qualche rilievo per la sua casa, per il suo personale potere.

È così che Erode si inventa anche l’attenzione per le sensibilità altrui: chiama i Magi, si fa raccontare la loro storia, la faccenda della stella, il loro viaggio, le difficoltà… immaginiamo gli interpreti a corte, un banchetto anche. Gli orientali non sospettano nulla, ci vorrà un «avvertimento in sogno» successivo perché realizzino che qualcosa non torna in tutta questa cortesia. Però intanto la scena si chiude con la più squisita delle attenzioni dichiarate: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino, e quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Delle reali intenzioni di Erode veniamo a sapere nuovamente dal sogno, questa volta di Giuseppe: «Erode vuole cercare il bambino per ucciderlo». Il sogno per gli antichi prefreudiani è il luogo dell’ascolto interiore, della comprensione delle dinamiche più consistenti della vita.

I Magi se ne andranno, senza farsi partecipi dei piani di Erode. Il loro arrivo, pur con tutto il trambusto che hanno generato in tutta Gerusalemme, non è stato uno scontro di civiltà.

Il tema dei Magi di questa antica storia è (anche) quello della ripresa di contatto con le attese di salvezza a cui il potere civile non può dare risposta, ma che un potere civile incolto e preoccupato solo di apparire sensibile con tutti per rimanere in sella, può fiutare come qualcosa di pericoloso. Questa ripresa di contatto con le attese profonde è pericolosa perché ricorda che la vita non si risolve nelle feste di corte invidiate da tutti, perché ricorda che il potere civile ha una sovranità limitata, perché ricorda che la logica del Regno di Dio – che è logica di servizio molto più che logica di sovranità – è forza sovversiva di ogni potere che si fonda sulla paura della morte. E il grande gioco di prestigio dei Re civili, dimentichi delle attese profonde del vivere – anche in democrazia –, consiste proprio nel proporsi come dispensatori di vita o di morte, come Signori dell’altrui esistenza. Questo è il potere che il Natale insidia, un potere illusorio, ma nella cui ombra di illusionismo si dissimulano le piccole e grandi ingiustizie della vita ordinaria.

Il Natale, il dies natalis di Gesù Cristo, è pericolosissimo. I potenti hanno ragione di temerlo. Chiunque si senta a qualche titolo signore della vita e della morte ha ragione di temerlo e sperimenta, come Erode, la tentazione di rimuoverne l’appello e – possibilmente – di farlo sotto mentite spoglie, magari collezionando qualche applauso di consenso. E chi fa delle radici culturali natalizie una battaglia di identità, ma si guarda bene dal misurarsi con l’appello del Natale, non ragiona diversamente da ogni Erode: ammicca, semplicemente, ad altre “sensibilità”. Questo, almeno i cristiani, dovrebbero saperlo.

Ci riesce comodo, da sempre, celare l’attenzione a noi stessi e al nostro (relativo) potere con l’attenzione alla sensibilità altrui (o di qualche specifica parte di cui ambiamo il consenso): è il modo più elegante per rinviare il confronto con le attese profonde del popolo, che però sono pur sempre le nostre stesse e più sepolte attese.

La festa del Natale ama esporci ritmicamente al pericolo di misurarci con il nostro desiderio di vita e con le nostre le paure di morte nella luce di un annuncio di liberazione dalla dipendenza dai poteri piccoli che si fingono unici e immensi.

«Non auguri di non buone feste di non Natale a tutti (e non)» ha suggerito – sarcastico – di augurarci reciprocamente Gramellini. In alternativa potremmo dirci: pericolosi auguri di pericoloso Natale. Ne coglieremmo più da vicino lo spirito.

* La notizia è vera a metà, l'iniziativa della "Grande Festa delle Buone Feste" risulta promossa dai genitori nel doposcuola, mentre l'Istituto scolastico ha dedicato attenzione alla tradizione del Natale. Si può trovare la notizia su Il Corriere e la rettifica su Aleteia.