Nei sondaggi che mi capita di fare in occasione di qualche corso o conferenza accade quasi sistematicamente che la parola “autorità” sia associata ad una famiglia di riferimenti generalmente connotati negativamente: obbligo, costrizione, violenza, prevaricazione. Questo modo di percepire l’autorità è molto in linea con quella che Charles Taylor ha definito “cultura dell’autenticità”, un modo di pensare e di essere che attribuisce positività alla possibilità esprimersi secondo se stessi e, viceversa, negatività al fatto di conformarsi a indicazioni stringenti e/o costringenti provenienti dall’esterno. Scrive così, per precisione, Taylor: «Con “cultura dell’autenticità” intendo quella concezione della vita secondo cui ciascuno ha un modo specifico di realizzare la propria umanità e che è importante scoprire e vivere tale originalità, anziché conformarsi individualmente a un modello imposto dall’esterno, dalla società, dalle generazioni precedenti o dall’autorità religiosa o politica». (C. Taylor, A secular age; tr. it.: L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2009, p. 598).
In un certo senso, l’idea che sembra essersi affermata nella società postmoderna è che le soluzioni di vita provenienti da dentro, dalla propria ispirazione, siano quelle umanamente buone e quindi da seguire, mentre quelle che vengono da fuori, in special modo dalle autorità (familiari, sociali, religiose…) siano per lo più tentativi di renderci disciplinati, funzionali al sistema e, alla fine dei conti, infelici; soluzioni quindi di cui diffidare e preferibilmente da non fare proprie, pena l’inautenticità.
L’autorità, insomma, se la passa male nella cultura contemporanea e l’ultima cosa che ci viene in mente è che possa essere una forza alleata del progresso (personale e sociale): piuttosto la percepiamo come una risorsa di ottusa conservazione, un ostacolo sulla strada della fioritura della nostra irripetibile umanità.
Andrea Grillo ha proposto recentemente di discutere sulla figura dell’autorità, sulle possibilità di un suo recupero e anche sul modo di intenderla e di esercitarla, specialmente poi nella Chiesa cattolica (qui il post di avvio del dibattito su "Cultura civile e teologia"). La trovo una proposta interessante, proprio a partire dal quadro che ho sbozzato sopra, con l’aiuto di Taylor. Vorrei allora contribuire alla raccolta delle idee provando ad avanzare alcune semplici osservazioni – in un post questo riesco a fare – per mettere in questione il modo di percepire l’autorità che ho richiamato sopra. La tesi è semplice ed è questa: la “cultura dell’autenticità”, intesa come enfasi dell’ascolto di sé e sospetto verso l’autorità esteriore, è una cultura massimamente conservatrice e di fatto nemica della maturazione della persona e del cambiamento. Per ridare slancio al dinamismo personale e sociale quel che occorre è invece proprio ritrovare il senso e il ruolo dell’autorità.
Provo a offrire qualche ragione a sostegno di questa tesi.
La prima osservazione che vorrei fare è che di per sé l’autorità, specialmente quella delle Istituzioni politiche e religiose, viene percepita negativamente – come accade nei sondaggi al volo – perché di primo acchito immaginiamo che coincida in tutto per tutto con una voce che ci obbliga (o prova a obbligarci) a fare quello che non vorremmo. Dobbiamo però riconoscere che ci sono circostanze in cui invece l’autorità ci piace molto, e la accogliamo come una fonte positiva: va così, ad esempio, quando impone ad altri quello che noi già facciamo o quando consente dopo un tempo di proibizione quel che noi vorremmo poter fare. Talvolta l’autorità ci indica anche il modo migliore e più economico di fare nelle situazioni in cui siamo senza idee: in molti casi ci affidiamo all’autorità degli esperti, e anche in questi casi ci sentiamo più risollevati che non oppressi. Esistono cioè diversi frangenti in cui volentieri facciamo quel che altri ci dicono o persino prescrivono, senza con questo sentirci mortificati, privati di libertà o inautentici.
In breve: l’autorità ci piace quando già aderiamo a quel che propone o quando quest’adesione è per noi chiaramente vantaggiosa. Non ci piace quando ci chiede un cambiamento che implica qualche fatica, scomodità o passo indietro rispetto alla possibilità di soddisfare un nostro desiderio. Se l’autorità (famigliare, politica, religiosa…) si è spesso dotata di un potere coercitivo è proprio perché da sempre si è misurata con la resistenza individuale a fare proprie delle indicazioni per la vita contrastanti con alcune delle ispirazioni che ciascuno scopre o ritrova dentro di sé.
La coercizione tuttavia, se sortisce qualche effetto a livello di disciplina dei comportamenti individuali nella prospettiva del presidio dell’ordine o della sicurezza sociali (cose comunque da buttare a cuor leggero), non ha efficacia a livello del cambiamento interiore. Le persone si possono certo costringere a fare qualcosa che non farebbero, ma non a volere qualcosa che non vogliono. L’autorità che impone è indubbiamente quella che non favorisce alcun cambiamento (se non, appunto, esteriore) e che viene percepita rapidamente come avversaria della persona, alimentando una sorta di effetto elastico: la disciplina dei comportamenti tiene finché c’è in giro l’occhio vigile del controllore, ma appena questo si distrae o cade in disgrazia si riprendono le abitudini e i modi di fare a cui si era precedentemente legati.
Tommaso d’Aquino ha posto questa evidenza come pietra angolare della sua psicologia (Cfr. Summa Theologiae, I-II, q. 6 a. 4), formulando in un certo modo un problema antropologico di fondo che investe anche la funzione dell’autorità: a quali condizioni siamo in grado di ascoltare, accogliere e praticare volontariamente indicazioni di vita che mettono in questione alcuni dei nostri modi abituali di fare e alcune delle ispirazioni familiari che avvertiamo in noi stessi?
Per vincere le nostre resistenze al cambiamento abbiamo bisogno di essere provocati, convinti del meglio che può profilarsi, e di essere sostenuti in un percorso graduale. Ma che cosa è in grado di dispiegare queste manovre?
Cambiare non è facile. Più l’esperienza diventa cospicua, più gli anni passano, più le abitudini si consolidano nella ripetizione e diventiamo via via meno propensi ad accogliere le novità. Preferiamo andare sul sicuro, come recita il detto: «Chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa quello che lascia ma non sa quel che trova». Con il passare del tempo si diventa conservatori, conservatori di quel che c’è, nel bene e nel male. Al punto che ci si scopre legati – qualcuno pietosamente dice: affezionati – persino alle proprie cattive abitudini.
Precisiamo ancora: migliorare non è facile. Più si avanza in età, più la crescita umana diventa un lavoro di cesello: per modificare piccoli atteggiamenti ci vogliono molto impegno, vigilanza interiore, fedeltà nell’esercizio. Al contrario, lasciar perdere il lavoro su di sé, adagiarsi nel copia-incolla esistenziale, accomodarsi nel “sono fatto così, cambino gli altri” è semplice: basta tirare i proverbiali remi in barca e sposare la filosofia del “grande fiume trasportami”.
Di cosa abbiamo allora bisogno per la vita spirituale e per continuare a scolpire la nostra fisionomia personale secondo una logica di cambiamento, che sia una progressione nel bene e una regressione dai mali di cui inevitabilmente siamo coautori? Di cosa abbiamo bisogno per non diventare dei granitici conservatori, persone via via più rigide nelle proprie abitudini (quali che siano, anche quelle socialmente trasgressive, non illudiamoci)?
Abbiamo bisogno esattamente dell’autorità in tutti quei suoi aspetti diversi dalla coercizione, ovvero di una “voce” capace di farsi ascoltare, di sollecitarci verso quella prospettiva di bene che ancora non appartiene alle nostre inclinazioni e di accompagnarci strada facendo nell'affrontare la fatica. Abbiamo bisogno di una “voce” in grado di vincere le nostre resistenze con noi e non contro di noi, di una “voce” in grado di bypassare il ricorso alla costrizione.
In effetti il riconoscimento di un’autorità esteriore di questo tipo è quel che ci offre la possibilità di non essere esistenzialmente dei conservatori, fossilizzati nelle nostre abitudini (tra cui ce ne sono certo di buone, che però possono crescere, e altrettanto certamente di cattive che tuttavia si possono rimodellare) che la vita ha scolpito in noi nei primi anni della definizione del sé.
Se ora riprendiamo la definizione di Taylor della “cultura della autenticità”, forse riusciamo a scorgere meglio l’ambiguità che porta con sé.
L’ideale dell’espressività, dell’agire secondo se stessi, può essere sensato nelle stagioni iniziali della vita quando ciascuno si sperimenta – a proprio rischio e pericolo e auspicabilmente interagendo con altre figure adulte – nel dialogo con una pluralità di voci, spesso difficilmente discernibili da subito secondo il bene o il male. Tentare l’inedito e trasgredire rispetto al contesto è fisiologico nella stagione della ricerca del proprio posto nel mondo.
Tuttavia questo ideale, se lo proiettiamo su tutto l’arco della vita, e sulla stagione lunga della vita adulta in particolare, si trasforma presto nella grande trappola del conservatorismo esistenziale: fare esclusivamente “di testa propria” – al netto di ogni retorica dell’autonomia – è via via fare quel che semplicemente ci si è abituati a fare, invecchiando come adulti che sono la fotocopia ingrigita degli adolescenti che furono.
Per quanto possa sembrare strano, è da adulti che abbiamo maggiore bisogno di poterci misurare con una autorità consistente, non ottusamente coercitiva, ma capace di spiazzarci, di affascinarci, di convincerci a fare diversamente mostrandoci il meglio che possiamo ancora estrarre da noi stessi.
Se sono riuscito a tratteggiare la dinamica generale, e a mostrare che la funzione positiva dell’autorità esteriore è esattamente quella di sostenere le prospettive di cambiamento, quel che ovviamente rimane da discutere è quale, tra le tante, sia l’autorità concreta a cui affidarsi.
Se ci rendiamo disponibili a non essere noi stessi l’unica autorità ammissibile nel parlamento interiore, a cosa o chi altri consentiremo di prendere autorevolmente parola? Come riconosceremo l’autorità che concretamente indirizza al buon cambiamento, dal momento che – lo sappiamo – si può anche cambiare peggiorando il proprio profilo umano e la propria condizione?
Quel che possiamo fare è forse accertarci del pedigree, se così si può dire, delle diverse autorità che ci interpellano. Da tempo sono sempre più persuaso che il pedigree dell’autorità si chiama tradizione: una storia lunga di donne e uomini che hanno acconsentito a lavorare su di sé secondo indicazioni costantemente tramandate, ripulite da incrostazioni e verificate nei loro frutti di bene e di crescita, personali e relazionali. Dove manca la tradizione e prevale l’improvvisazione non è detto che manchi la capacità di scorgere il bene, ma spesso manca proprio quella di scorgere i passi falsi, le illusioni e i processi meno visibili di incubazione del male.
Ad Andrea Grillo e agli altri amici che sono intervenuti affido questa deviazione del dibattito nelle regioni della vita interiore; immagino poi che l’autorità nella Chiesa cattolica, nella misura in cui è voce di una Tradizione viva, sia da intendere nel senso di risorsa stabile per l’innovazione personale e sociale secondo il bene prospettato al Vangelo. Ma questo, come diceva Maritain, lo scrivo più che altro da research worker.