So-STARE?

Capita spesso di incontrare un gioco grafico legato al verbo “sostare”: se inseriamo un trattino (so-stare) riusciamo a suggerire immediatamente l’idea che per imparare a stare – in un luogo, con altri e anche con se stessi – occorra fermarsi, e prendersi il tempo necessario per coltivare quella capacità di abitare bene nel mondo, che non viene da sé semplicemente con il passare degli anni. Fermarsi, rallentare e magari anche ritirarsi per un po’ è necessario proprio per fare dei passi avanti nella maturità. Chi non si ferma mai vive nell’illusione di avanzare più rapidamente, ma in realtà finisce per correre sì sempre più velocemente, ma in cerchio, spesso trovandosi a replicare continuamente gli stessi modi di fare e di pensare: è l’esperienza dell’“eterno ritorno dell’uguale” o, più semplicemente, del prevalere della forza dell’abitudine.

Un semplice trattino nella scrittura aiuta già a evocare molte cose che probabilmente risuonano a partire dalla vita ordinaria. Possiamo però riflettere su qualcosa di ancora più curioso se osserviamo che il verbo latino substo, substare non ha originariamente come significato primario quello del fermarsi…

Substare costituisce la base per una rosa di termini che hanno avuto grande importanza nella storia del pensiero occidentale, primo tra tutti substantia, sostanza: letteralmente “ciò che sta sotto”, che sostiene e dunque che ha consistenza, che individua l’essenziale che rimane.

In senso derivato poi tutto quel che substat, tutto ciò che ha consistenza e che rimane stabile, oppone anche resistenza: non si presta ad essere travolto o stravolto con facilità. Da questo punto di vista allora possiamo capire che sostare può anche implicare il fatto di fermarsi, ma l’idea alla radice non è tanto quella della pausa agognata o del rallentare dopo aver tagliato un traguardo, quanto piuttosto quella della caduta per aver inciampato su un ostacolo, che immaginavamo di poter rimuovere con un leggero tocco e che invece si è rivelato ben più consistente.

Abbiamo così davanti a noi due suggestioni ugualmente interessanti e tra loro legate: anzitutto c’è l’annotazione disincanta che ci ricorda che – al di là dei nostri propositi – per lo più nella vita ci fermiamo a riflettere su quel che ci sta accadendo solo quando inciampiamo, quando i nostri piani vanno a rotoli, quando la realtà – fatta di contesti, di mezzi e soprattutto di relazioni – oppone resistenza alla realizzazione dei nostri desideri. Poi c’è il rilancio “filosofico”: una volta che nostro malgrado ci siamo fermati, abbiamo l’occasione per fare il punto sulla situazione ovvero per andare alla sostanza di noi stessi. Abbiamo dunque l’opportunità di chiederci in cosa consiste l’essenziale del nostro percorso, del nostro progetto di vita, del nostro correre: che cosa “sta sotto”?

La prima suggestione può essere di aiuto per rivalutare l’esperienza del fallimento, della caduta o comunque del “cambio di programma” forzato dei propri progetti: indubbiamente si tratta di passaggi vissuti soggettivamente quantomeno come spiacevoli; talvolta possono assumere anche contorni drammatici. Sono però proprio questi i momenti in cui si interrompe la corsa o si spezza una routine, in cui occorre valutare qualche alternativa, qualche cambiamento. Tutto questo genera da sé una situazione di sospensione, “regalando” proprio quel tempo di sosta che finché tutto procede senza intoppi molto probabilmente non ci saremmo mai concessi. Il fallimento non è mai il benvenuto, ma questo non significa che sia un passaggio inutile alla vita: al contrario, regala – per quanto in modo sgradevole – possibilità molto concrete di sostare. E, dunque, possibilità di ripartire in crescita, avendo imparato come stare meglio al mondo.

La seconda suggestione mette invece in guardia dal pensare che la sosta sia un tempo di riposo, un tempo di distensione. Ci sono, e ci vogliono, anche pause di questo tipo. La sosta che si origina dalle resistenze della vita è però diversa: chiede lavoro e discesa in profondità, diventa feconda solo se la si attraversa come una opportunità di andare alla sostanza. Il tempo della “convalescenza” dopo la caduta finisce sprecato se lo si impiega solo per prendere le distanze dalla difficoltà, confidando di ricominciare come prima e magari di dimenticare. Occorre trovare modi per scendere verso le radici di se stessi, per comprendere da dove nascano abitudini, modi di relazionarsi e di pensare, progetti di cambiamento, desideri che proiettano nel futuro.

Questi “modi” di accedere alla propria sostanza erano noti agli antichi come “esercizi spirituali”; la tradizione cristiana ha poi approfondito gli spunti dei filosofi, sviluppando una comprensione originale ed accurata delle dinamiche della vita interiore. Questo patrimonio merita di essere riscoperto e approfondito proprio da chi si trova a dover sostare e – insieme – da chi si mette a disposizione delle persone in sosta, perché il tempo che queste, loro malgrado, hanno a disposizione possa diventare un’opportunità di crescita e di cambiamento in meglio del vivere.

 

 

Il contributo si trova in pdf sul sito della Caritas di Padova