Il Ministero della Salute ha lanciato la campagna del #FertilityDay ed è stata subito polemica. Saviano si è sentito investito del ruolo di portavoce degli “insultati” e ha mobilitato con un tweet la platea socialmediatica. Con lui molti opinionisti hanno proseguito spiegando chi gli aspetti intrinsecamente offensivi della campagna, chi la gaffe di tipo comunicativo. Il cortocircuito che un po’ tutti hanno evidenziato sta nel fatto che una iniziativa – comunque prevista nel quadro della legge 40 – che doveva essere di tipo informativo è stata percepita come una campagna di tipo morale. Era possibile evitarlo? Credo proprio di no. E credo che se analizziamo con un po’ di attenzione questo episodio abbiamo anche la possibilità di cogliere qualcosa di più a proposito delle difficoltà morali inedite che sorgono quando la tecnica ci mette silenziosamente a disposizione nuovo potere sulla fisiologia corporea.
Di per sé l’oggetto della campagna non è una questione morale ma, appunto, fisiologica. La curva della fertilità del genere umano è, come molti altri aspetti legati alla corporeità, una parabola prima ascendente e poi discendente, rispetto a cui la “personalizzazione” dovuta alle nostre diversità individuali sposta di poco i termini. I ginecologi lamentano il fatto che molte persone – strano ma vero – ne siano all’oscuro e, apprendendolo, si rammarichino di non averlo saputo e di aver fatto conto che prima o dopo (sempre da un punto di visto fisiologico) sarebbe stato uguale.
Eppure il messaggio che è passato è che l’esortazione a “fare presto” fosse di tipo morale, un rimprovero del tipo: non siate pigri e indolenti.
Era inevitabile che andasse così, e questo non dipende principalmente dalla imperizia dei pubblicitari che hanno ideato gli spot, ma dal fatto che oggi, molto più di qualche tempo fa, mettere al mondo dei figli è qualcosa che una coppia può controllare agevolmente sul piano della relazione sessuale. Oggi tutti percepiamo cioè che fare figli è anzitutto una libera scelta, e questo proprio perché si può optare anche per il contrario, si può decidere di non farli all’interno di una vita stabile di coppia.
Ma dove c’è scelta, ci piaccia o no, c’è morale.
Questo ingresso della generatività fisica nell’ambito della morale – di cui oggi non ci rendiamo più conto – è qualcosa di piuttosto recente. I diversi metodi contraccettivi si sono diffusi solo a partire dal secondo dopoguerra (la prima “pillola” è del 1950): prima di allora non esistevano soluzioni a portata di mano per evitare una gravidanza, i “metodi naturali” – peraltro studiati proprio per facilitare e non per evitare la fecondazione – sono stati sviluppati a loro volta a partire dalla metà degli anni Sessanta. Prima di allora per una coppia (e non parliamo di situazioni-limite, ma dell’ordinarietà) avere o meno figli era un evento che poteva certamente venir collocato nella forchetta tra il “desiderato” e l’“indesiderato”, ma al tempo stesso era ancora qualcosa che semplicemente accadeva o non accadeva a conseguenza di un rapporto, senza che fosse possibile scegliere in proposito. A meno, naturalmente, di decidere di non avere affatto rapporti, cosa a dire il vero un po’ singolare per due persone fresche della scelta di vivere assieme per la vita.
I figli, insomma, potevano arrivare così come potevano non arrivare. Si poteva provare ad averne molti, moltiplicando – per così dire – i tentativi. Ma non si poteva scegliere il contrario, cioè di avere molti rapporti evitando tuttavia sistematicamente di concepire dei figli.
Lì dove i figli sono una “possibilità che accada” e non una “scelta”, anche il contesto in cui si vive pesa in modo diverso. La generazione dei miei nonni ha messo al mondo quella dei miei genitori con i papà in partenza per la Russia, per l’Africa o il Montenegro. Non possiamo dire che le loro condizioni oggettive né le loro aspettative di futuro fossero più rosee e rassicuranti di quelle odierne. Per questo l’idea che il principale motivo per cui oggi si rinvia la generazione dei figli sia l’oggettiva precarietà del lavoro non coglie affatto il cuore della questione. Il contesto dei nostri nonni (come quello ancora oggi di molti Paesi o di molte famiglie che pur in povertà continuano a fare figli) non era più facile di quello odierno occidentale, ma era anzitutto vissuto diversamente, e questo proprio perché il mettere al mondo dei figli non era oggetto di scelta in senso assoluto. Come dire: siccome che arrivino o non arrivino non è in nostro potere deciderlo, quel che possiamo fare è semplicemente accoglierli con quello che c’è a disposizione. Non c’è spazio per porre il problema se sia o meno il momento “giusto”: in proposito non c’è una decisione da prendere, c’è solo una situazione nuova da affrontare.
Oggi invece, nel nostro contesto, mettere al mondo dei figli è diventato integralmente un fatto morale, proprio perché a differenza di solo mezzo secolo fa possiamo realmente decidere se farlo o meno nell’economia di una vita di coppia e percepiamo di conseguenza tutto il “peso” di questa scelta.
Sono cambiate le nostre possibilità tecniche, ma con loro è cambiata anche la nostra prospettiva sulla generatività, a dimostrazione del fatto che la tecnica non è mai neutra, ma anzi spesso istituisce dei “territori morali” lì dove prima non c’erano.
Questo nuovo territorio morale lo abbiamo fino ad oggi esplorato a tentoni, spesso riducendo tutto ad una questione di liceità o meno dei metodi contraccettivi, quali che fossero le posizioni, pro o contro. Iniziamo invece ad accorgerci che l’essere approdati ad una sessualità on demand, facile, e appunto sganciata dalla procreazione, è solo un lato della medaglia. Aver reso più light la relazione sessuale, liberandola dal “peso” della naturale e possibile generazione di nuova vita, ha sortito l'effetto collaterale di rendere più heavy proprio la generatività fisica: trasformandola in oggetto di scelta l’ha ricollocata integralmente nell’ambito della morale, caricandola di un alone di gravità sconosciuto in passato. Oggi avvertiamo cioè che devono esserci delle buone ragioni per fare figli, buone ragioni che eccedono l’aver scelto di vivere insieme stabilmente come coppia. Oggi gli inevitabili cambiamenti (gioie e fatiche) che comporta l’arrivo di un figlio o di una figlia possiamo scegliere se innescarli o meno. E dunque: ne saremo all’altezza? Dovremo rinunciare a molte cose, siamo sicuri di volerlo fare? Che futuro avranno questi bambini? Li mettiamo al mondo senza la certezza di poter provvedere a loro, con quello che costa oggi tutto il “mondo bebè”? Sono tutte domande che oggi affiorano e che non avrebbero avuto alcun senso fino alla generazione adulta dell’immediato dopoguerra.
Dire che occorrono delle buone ragioni per fare figli significa però anche dire che occorrono specularmente buone ragioni per non farne o per rinviare (sempre nella cornice di una vita di coppia): alle domande che abbozzavo sopra possono essere date risposte di segno diverso, ovviamente.
La campagna non poteva allora non creare disagio, e questo per il semplice fatto che ha provocato – involontariamente? Maldestramente? – a mettersi davanti alle ragioni di una libera scelta, e in particolare della libera scelta del rinvio.
Attenzione però: tutto questo significa anche che il “disagio” della campagna investe solo apparentemente chi incontra effettive difficoltà di ordine fisiologico, perché queste coppie hanno già la loro dolorosa buona ragione, ed è una buona ragione che precisamente revoca lo statuto di scelta alla mancata generatività che affligge la loro vita di coppia.
Le reazioni degli opinionisti che hanno denunciato una (presunta) offesa a chi si trova in difficoltà, non sono perciò lo specchio di una sensibilità verso le storie particolari più faticose: sono piuttosto lo specchio di una cultura che inaugura di continuo grazie alla tecnica nuovi territori morali, ma che poi fa fatica ad abitarli.
Questa fatica va colta e affrontata, possibilmente non mettendo la testa sotto la sabbia, protestando che il Ministero non deve permettersi di fare campagne morali ed eludendo così la questione. Anche senza la campagna del #fertilityday il problema rimane: ora che abbiamo trasformato la generatività fisica in una scelta, dobbiamo – con pazienza – imparare a portarne il peso e riguadagnare per via morale la coscienza rappacificata che mettere al mondo almeno uno o due figli è per lo più un’impresa sostenibile, e che c’è un tempo della vita quantomeno più favorevole per farlo.