Quante pecore ci sono #nelPresepio? Un secolo fa gli stampi a disposizione erano un paio o poco più e la dotazione non si direbbe essere cambiata molto nel tempo, per cui – poche o tante che siano – sembrano sempre una schiera di replicanti. Tutti almeno una volta ci siamo ingegnati per disporle in modo creativo, per dare l’idea del movimento e della varietà. Le statuine con molta anzianità di servizio facilitano il compito: anche se originariamente erano tutte gemelle, nel tempo ciascuna si è rotta o sporcata in modo unico. Così, sistemando le pecore #nelPresepio, mi pareva che suggerissero due sguardi possibili nel guardarle: uno è quello che – per dirla in modo difficile – si concentra sull’essenza, e vede quel che accomuna; l’altro è quello che si concentra sull’esistenza, che vede macchie e fratture e riconosce in questi tratti l’unicità di ciascuna…
Occorre ammettere che la pecora non gode di buona stampa nell’immaginario contemporaneo. Nel tempo in cui tutti desideriamo affermare la nostra originalità e autonomia decisionale, essere additati come “pecoroni” suona come un oltraggio. Per non parlare poi delle capre, assurte a simbolo di ebetudine grazie a qualche noto personaggio televisivo. In ogni caso di pastorizia ne sappiamo tutti talmente poco, che persino l’immagine della relazione tra il pastore e le pecore risulta difficile da attualizzare. Anche nella Chiesa, dove viene impiegata per indicare il rapporto tra presbiteri e popolo, si offusca non appena si flette a voler indicare il rapporto tra chi comanda e chi esegue, tra la mente e il braccio, tra chi pensa e chi fa, tra chi sa e chi ignora. Lo sguardo un po’ assente dei poveri ovini e l’enfasi sul ruolo di guida dei pastori esprime una asimmetria che – in qualsiasi epoca – risulta per nulla incoraggiante, se applicata ai rapporti tra persone.
La pecora diventa così una figura ben poco interessante, la sua indole risulta essere quella di confondersi nel gregge, incapace di una prospettiva propria, fatta per essere condotta e guidata.
Non sembra però essere questa la simbolica che troviamo nel vangelo di Giovanni: qui delle pecore è evidenziata a più riprese una capacità specifica, quella di riconoscere il pastore dalla voce. È annotato che «le pecore ascoltano la sua voce» (Gv 10,3), che «lo seguono perché conoscono la sua voce» (Gv 10,4) e che anche altre «ascolteranno la [sua] voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16).
Delle pecore dunque si dice che ascoltano. E del pastore si dice che è bello (kalos).
L’effetto che si crea è curioso: la bellezza viene riconosciuta dall’udito e non dalla vista.
Questo fa pensare che il pastore sia quella che chiameremmo una “bella persona”, per giunta inconfondibile, come lo è il timbro vocale di ciascuno. E fa pensare che le pecore abbiano un orecchio abilitato a riconoscere con certezza proprio quel timbro.
Questa è allora la caratteristica essenziale delle pecore: tutte ugualmente capaci di distinguere la voce di bellezza, quale che sia la loro singolarità esistenziale, quali che siano le loro ferite o le loro macchie.
Le pecore #nelPresepio non richiamano a passività, ad assenza di pensiero o a omologazione: invitano a riscoprire quella capacità di ascolto interiore che ci è connaturale; incoraggiano ad intensificare il discernimento, nella fiducia che tra i molti pensieri – che ci visitano a partire dall’irripetibilità delle nostre esistenze – ci sono sempre anche quelli suggeriti dal pastore bello. Legarsi a quella voce è legarsi alla vita, è entrare e uscire e trovare pascolo (Gv 10,9).
Le pecore, #nelPresepio, invitano all’attesa interiore di un richiamo che a ciascuno è dato di poter riconoscere: riusciremo ad avere la stessa fiducia nell’apertura del nostro spirito che, nelle parole dell’evangelista Giovanni, mostra di avere il Messia? È l’augurio per il Natale2015.