La seconda figura che prende posto #nelPresepio2015 è la donna con l’anfora. Oggi la raffigureremmo con una confezione da 6 bottiglie di acqua da 1,5 litri e con molte altre cose probabilmente, quel che basta per riempire un frigorifero per alcuni giorni in una vita che non ha più tempi compatibili con i rifornimenti quotidiani. È un altro di quei personaggi che rappresentano la vita di ogni giorno, non necessariamente attratta da qual che sta accadendo nella vicina stalla, perché in fondo è vero: solo una deformazione dello sguardo religioso fa pensare che tutto il mondo sia naturalmente interessato ai luoghi che per i cristiani sono significativi. Questi personaggi in un certo senso ricordano il primato dell’arrivare a sera: la nostra attenzione non può fare a meno di posarsi sulle piccole cose, di coinvolgersi nelle cose prosaiche che però sono il tessuto portante della vita. La donna è giovane. E se fosse quella stessa samaritana che Gesù incontrerà molti anni dopo, ancora ad attingere acqua ad un pozzo, con ormai alle spalle una vita di fatiche e relazioni avvizzite? Proverei a immaginarla così, pensando – a ben guardare – che in realtà potrebbe essere ricordata come la prima teologa cristiana...
Sono passati trent’anni. L’anfora non è più la stessa, si è rotta in uno dei tanti cambi di casa. Quella che porta ora con sé è più piccola, perché neppure lei è più la stessa. Non ha più la stessa la forza dei suoi vent’anni. Non ha più quello sguardo un po’ innamorato di futuro che la faceva notare a Betlemme. Di innamoramenti nella sua vita ce ne sono stati in effetti diversi: cinque mariti, cinque storie, tutte finite. Quella che vive ora non è neppure matrimonio, oggi la chiameremmo una convivenza senza entusiasmi, forse più simile ad una mutua assistenza. Cosa si aspetta dalla vita oggi? Di portare a casa quella benedetta acqua e di tirare avanti ancora un giorno. Inutile pensare ad altro, perché altro non c’è. Non sicuro per lei, che esce in un’ora improbabile – a mezzogiorno, quando tutti si ritirano per difendersi dal caldo – forse proprio per evitare incontri, per evitare domande che rilancerebbero pensieri, che riaprirebbero ferite. Per evitare gli sguardi di disprezzo che sa di attrarre come una calamita.
Al pozzo incontra un uomo, le “cronache” dicono che fosse «affaticato per il viaggio» (Gv 4,6). Le rivolge la parola, cosa decisamente sconveniente. Però è parola e non quella solita occhiata severa, che spesso ne racchiude tante e irripetibili. E le chiede da bere. Accidenti, non bastava attingere per i suoi di casa, anche per questo straniero? La cosa più sorprendente però è che questo tizio insiste per parlare, per discutere con lei.
Di cosa parlano?
Qui l’evangelista Giovanni crea uno dei suoi capolavori letterari, che merita di essere riletto per intero: parlano anzitutto della sete e dell’acqua di cui vivere, della fatica di tornare ogni giorno al pozzo; poi, in un gioco di fraintendimenti tra il senso letterale e quello spirituale, la conversazione prende una piega inattesa: la donna finisce per interrogare questo estraneo – che sembra saperne molto di lei – su questioni cultuali e teologiche. «Dove si adora Dio, sul monte o nel tempio?» (Gv 4,20). «Dicono che sia atteso il Messia, non è che…?» (Gv 4,25). La faccenda diventa così coinvolgente che, alla fine, per andare a raccontare in paese dell’accaduto – lei che evitava sistematicamente incontri e sguardi! – dimentica perfino la sua anfora. Dimentica? «Lasciò» dice il testo (Gv 4,28), in fondo ben sapendo che chi dimentica da qualche parte le borse della spesa non sono certo le donne…
Cos’è successo? Cosa è avvenuto in quella donna per farla cambiare così, per farle lasciare quel fardello che fin dai giorni di Betlemme portava sulle spalle? Qui che sia accaduto nell'intimo possiamo solo supporlo, ed è senz’altro il cuore dell’episodio.
Quel che è successo pubblicamente attorno a quel pozzo possiamo però ricostruirlo senza esitazioni: Gesù ha discusso con una donna, messa ai margini socialmente – i suoi discepoli, prototipo dei futuri vescovi, «si meravigliavano che parlasse con una donna» (Gv 4,27), assicura la “cronaca” –, messa ai margini personalmente; ha discusso di questioni teologiche dando per scontato che lei lo seguisse al volo, passando dal registro letterale a quello spirituale; è stato con lei quel tanto che bastava perché da pochi segni di attenzione sorprendente, di prossimità alla sua vita sventurata, di stima per la sua ricerca esistenziale, sorgesse in lei un legittimo sospetto: «Che sia lui il Cristo?» (Gv 4,29).
Così il vangelo di Giovanni ci racconta che mentre i discepoli, assidui frequentatori del Maestro, erano ancora intenti a lottare con i loro schemi sociali, una donna diventava letteralmente la prima teologa cristiana, capace – stando alle poche pennellate dell’evangelista – di partire dalle attese della vita ordinaria con le sue fatiche e i suoi pesi per liberare le domande su Dio, sul significato della preghiera e dell’attesa, capace di rendersi conto di aver incontrato con ogni probabilità il Messia atteso.
Non poteva mancare questa donna #nelPresepio, ritratta negli anni della sua gioventù, poco interessata a quel che accade nella vicina stalla, ancora presa dai suoi sogni. Non poteva mancare l’idea che per ciascuno c’è un tempo favorevole per incrociare «colui che deve venire» e per diventare teologhe e teologi, donne e uomini capaci – come volevano gli antichi – di parlare con Dio prima che di Dio.