La ZAMPOGNA ROTTA

Il primo personaggio #nelPresepio2015 è l’uomo con la zampogna. Nessun evento che si rispetti è privo di una colonna sonora. La musica attrae ma soprattutto sottolinea un racconto. Ve la immaginate la sequenza di allenamenti di Rocky Balboa senza Eye of Tiger? O 2001 Odissea nello spazio senza l’Also sprach Zarathustra di Strauss? O The Mission senza l’oboe di padre Gabriel? Ecco, forse il clima nel presepio potremmo rappresentarcelo proprio come quello della riva su cui il padre gesuita inizia a suonare, sortendo il primo contatto con i Guaranì: la musica annuncia una nuova presenza, inattesa, il suono delicato invita a venire a vedere, suscita curiosità. Ma anche diffidenza. Tant’è che dopo le prime note l’oboe finisce per essere spezzato, la musica cessa e l’atmosfera si fa tesa. Da qui nasce però un percorso effettivamente nuovo. Anche la zampogna dell’uomo #nelpresepio è rotta. Manca un piccolo pezzo della canna per insufflare l’aria. Niente più colonna sonora dunque: occorre immaginare cos’altro possa fare, come farà a completare il suo invito ora che non può più contare sulla musica d’atmosfera...

«I contenuti, i contenuti sono importanti». A insistere su questo punto era un amico che si occupa di social media, impegnato a far capire che non serve a nulla riuscire ad attirare l’attenzione su un post o su un tweet se poi non non sappiamo bene che cosa volevamo raccontare o dove volevamo indirizzare chi ci ha regalato una goccia della sua curiosità. Cosa rimane dopo l’incanto, che sia della musica, delle immagini o di una battuta arguta? Se sappiamo dare risposta a questa domanda l’interrogativo successivo con cui misurarsi non è meno severo: il contenuto che offriamo, quanto coincide con noi stessi e quanto è diverso da noi? Questo bilanciamento è importante, perché nessuno ama i narcisisti. Specialmente sui social. Quindi attenzione, che se le nostre segnalazioni finiscono sempre per concludersi con un «magicamente io», come titolava l’autobiografia di Gilderoy Allock in Harry Potter, l’incanto della nostra colonna sonora si guasta rapidamente e finiamo per somigliare a un disco rotto a cui nessuno dà più bado. Occorre accompagnare anche altrove insomma, non parlare solo di quanto siamo bravi.

Non è solo strategia social: sono intuizioni antropologiche di un certo rilievo. Perché tolleriamo poco i narcisisti (anche se poi tutti ci diamo da fare per “piazzare” la nostra merce)? Perché intuiamo che quell’innamoramento di sé è il sintomo di una malattia profonda, addirittura del «peggiore dei vizi» secondo Platone. L’eccessivo amore di sé che si esprime nelle molte forme dell’autoreferenzialità è la patologia che più insidia la capacità di relazioni e che – sempre secondo il filosofo – porta con sé diffidenza e rovina: se ne siamo affetti «capita così che per le cose che non sappiamo fare noi non ci affidiamo agli altri, e per volerle realizzare di nostra mano, ci condanniamo al fallimento». (Leggi, V, 732 B). In breve: ci isoliamo e guastiamo ogni cosa. Tutti noi dubitiamo che chi soffre di questo male abbia realmente qualcosa di interessante da raccontarci e da poterci insegnare.

Tolti i Gilderoy Allock, facilmente individuabili, rimane che indirizzare gli ascoltatori anche altrove può essere semplicemente un diversivo, una strategia per bilanciare la comunicazione. Come smascherare i promotori di sé più sofisticati? Come riconoscere viceversa chi è effettivamente interessato a noi e non a sé, chi si sta mettendo in gioco per farci conoscere la novità che ha scoperto essere liberante?

Ritorno allora all’uomo con la zampogna e provo a immaginarlo come padre Gabriel, disponibile – dopo avermi attratto con la musica – a inoltrarsi nel mio territorio. Immagino che non abbia alcuna intenzione di catturarmi per condurmi forzatamente alla greppia, come una preda caduta nella rete. Immagino che riponga lo strumento, lieto di aver infranto una prima estraneità e di poter proseguire con me, qualunque sia la mia direzione. Pensandolo così riesco a immaginare cosa significhi mettersi in gioco per annunciare una novità che vale, e che non siamo noi stessi.

E mi sembra che la misura del decentramento da noi stessi e insieme della grandezza delle notizie che vorremmo raccontare possa essere quella della strada che saremo disponibili a fare nella terra dell’altro. Così mi pare anche di intuire che i promotori di sé più sofisticati non siano poi così difficili da individuare: sono quelli che magari fanno ottima musica, ma che poi non fanno un solo metro lungo le nostre strade.

Nel presepio allora lo zampognaro non è rivolto verso la greppia, ma verso la strada, dove passano i curiosi. Ha smesso di fare musica ma è pronto a partire, ad allontanarsi, a macinare strada lontano dal luogo in cui la novità che vorrebbe narrare gli si è mostrata.

Credo che lo chiameremo Gabriel, come il padre gesuita di The Mission.

O forse Gabriele, come l’angelo che aveva portato l’annuncio della nascita del Salvatore.