«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti». Inizia così la risposta alla domanda «chi è il mio prossimo?» che un dottore della legge pone a Gesù di Nazareth. È una risposta che si fa parabola, con al centro la figura del Samaritano. La tradizione – ma non la Scrittura – lo vuole “buono” e la rilettura morale il più delle volte conclude traendo dal racconto una lezione semplice: il prossimo è il bisognoso, e «amare il prossimo come se stessi» significa anzitutto farsi carico dello sventurato. Forse anche per questo la figura del buon Samaritano è stata evocata in questi giorni drammatici di frontiere chiuse e di filo spinato. La parabola però offre anche altri spunti proprio sullo straniero, e la lezione che propone è meno scontata di quanto non possa apparire. Non fosse altro perché Gesù non dice affatto che il “prossimo” sia lo sventurato…
Il racconto del vangelo di Luca con protagonista l’uomo di Samaria è senz’altro tra i più celebri. Tutti ricorderemo anche la pessima figura degli altri due personaggi rappresentati, il sacerdote e il levita, che vedono il malcapitato e passano oltre noncuranti. «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?», chiede Gesù dopo aver proposto il piccolo apologo (Lc 10:36). Il “prossimo” – quello da amare come se stessi – va cercato dunque tra i potenziali soccorritori, e il dottore della legge che aveva sollevato il quesito è pronto nell’indicare il Samaritano. Solo poi sorge l’invito: «Va' e anche tu fa' così». (Lc 10:37).
Chi è allora il Samaritano e perché amarlo come se stessi?
L’uomo di Samaria, l’unico dei quattro ad essere «in viaggio» – il malcapitato «scendeva», lo stesso si dice del sacerdote, il levita «giungeva» – è anzitutto lo straniero. Invece il sacerdote e il levita sono Giudei, e tutto lascia pensare che lo sia anche lo sventurato, dal momento che proveniva da Gerusalemme. Sono tre concittadini, appartengono alla stessa comunità politica, condividono la stessa “identità” culturale e religiosa. Eppure tra loro non si attiva nessuna solidarietà: i due passanti, entrambi uomini addentro in quel che riguarda il culto, avranno trovato delle buone ragioni – rituali, morali magari – per non farsi carico del bisognoso. È forse il paradosso della coesistenza, in ciascuno di noi, di grandi teoremi in materia morale e soprattutto religiosa e di un’insensibilità umana che porta a ignorare le necessità essenziali persino dei membri della propria stessa comunità. Quanti “ragionamenti”, ammantati di religioso, propongono in ogni epoca "buone" ragioni per non soccorrere l’altro uomo «mezzo morto»…
«Mezzo morto» è in effetti l’uomo incappato nei briganti, ma in un certo senso sono mezzi morti anche gli altri due: nessuno di loro ha la prospettiva del viaggio, di una destinazione che introduce senso nella vita; nessuno di loro si mostra capace di compassione, di relazione. Piuttosto rivelano un animo autoreferenziale, timoroso di rimetterci del proprio, in fondo tipico di una società decadente e impaurita, che anzitutto pensa a proteggersi, ossessionata dal problema della sicurezza.
Il Samaritano non appartiene a questa comunità politica in declino. La sua stessa identità religiosa – la sua “appartenenza” – è diversa, dal momento che per la sua gente il “luogo di Dio” era il monte, non il tempio in Gerusalemme.
Eppure è a questo forestiero che il malcapitato deve la sua rinascita: se il «mezzo morto» tornerà a vivere sarà grazie al passaggio dello straniero e grazie alle ricchezze che questi lascerà dietro a sé, proseguendo nel suo viaggio.
Lo straniero è colui che introduce la possibilità di nuova vita in una situazione asfittica, congelata, in cui persino tra concittadini prevalgono le "buone" ragioni per non accostarsi agli sventurati. Nell’altrettanto celebre episodio dei discepoli di Emmaus, colui che introduce un punto di vista vitale in una narrazione di fallimento e insuccesso sarà un uomo «forestiero a Gerusalemme» (Lc 24:18), che l’evangelista dichiarerà essere «Gesù in persona».
È interessante che l’accostarsi di Dio sia assimilato all’accostarsi del forestiero, di colui che porta una prospettiva insolita, altra, sorprendente, lì dove – chiusi nella propria visuale – ci si sta avvitando su se stessi, isolandosi sempre di più, vinti dalla paura di perdere sicurezze e privilegi. Lo straniero – qui, in Luca, il “religiosamente diverso” – è presentato come il prossimo da amare come noi stessi, per la capacità che ha di rimetterci in sesto quando siamo «mezzi morti», per la diversità di prospettive che introduce nel nostro mondo ingessato. Persino per la capacità che ha di ricordarci che Dio agisce allo stesso modo: porta vita scompaginando, risana aprendo a nuove visuali.
Anche un’identità culturale e religiosa mezza morta può trovare nel forestiero un soccorritore, uno che proprio con la sua nuda diversità rimette in movimento e aiuta a riscoprire l’essenziale. In questo senso appaiono davvero miopi quelle proposte che invitano ad essere selettivi con l’accoglienza degli stranieri in base alla loro “compatibilità”, culturale o religiosa che sia: lo straniero stimola il ritrovamento di se stessi, non lo ostacola. Quel che “insidia” – quando è bisognoso, oltre che straniero – non è l’identità, ma il portafogli. E se non sappiamo più distinguere le due cose allora forse siamo più che «mezzi morti».
In questi tempi in cui l’accoglienza si fa più faticosa può suonare provocatoria l’idea evangelica che per «ottenere la vita eterna» (Lc 10,25) occorra amare lo straniero come se stessi, tenerlo in massima considerazione per il principio di rinnovamento che introduce.
Al netto delle distinzioni tra gli onesti e i disonesti, tra i pacifici e i violenti, sapremo amare questo sorprendente “prossimo”? Impareremo a fare come il Samaritano, a metterci in viaggio, a scrutare una destinazione, per diventare nuovamente capaci di vedere e di avere compassione di chiunque incontreremo per via? Forse è questa, oggi, la grande sfida morale e politica dell’Europa.