Ormai anche le Università sono approdate sui social media. Ma ci arriveremo anche noi docenti? Non è soltanto una questione di tecnica o di tempo “da perdere”, ma anche di modo di intendere la funzione dell’insegnamento e il senso dell’esperienza universitaria. Azzardo qualche considerazione, mentre tento un esperimento (di cui, come è giusto che sia, mi impegno anche a fare un bilancio tra qualche tempo) attraverso twitter, con l’hashtag #AuleAperte.
Spesso si dice che uno dei compiti dell’università sia quello di formare ad una intelligenza critica. Può essere vero che le discipline umanistiche, per loro natura, abbiano qualche margine di manovra in più: è verosimile che una pagina di Aristotele solleciti sviluppi più vari di quanti non ne ammetta un’equazione algebrica. Al di là però della disciplina, il vero pezzo forte dell’esperienza universitaria dovrebbe essere la possibilità di confrontarsi e di discutere. Perfino di andare fuori tema, di esercitarsi ad andare lontano dall’argomento da cui si era partiti, imparando poi a farvi ritorno, in modo creativo e insieme logico. Trovare i nessi, sondare gli sviluppi, dare forma ad associazioni di idee che si fanno più profonde via via che vengono esplorate cooperativamente: tutto questo allena alla criticità, alla capacità di sollevare interrogativi, al gusto di fare il possibile per venirne a capo. Solo con questo sforzo anche la resa di fronte all’inspiegabile o all’insolubile conserva tratti di vera umanità: non è povera l’intelligenza che riconosce il proprio limite, è povera l’intelligenza che non ha lottato per capire. Ed è anche povera l’intelligenza che non ha compreso che il proprio avversario non è mai un’altra persona: il dibattito non può mai essere una lotta per piegare o peggio umiliare un’altra intelligenza.
Tutto questo credo che si debba e si possa impararlo proprio all’università.
È vero però che l’esercizio della discussione oggi fa fatica a trovare posto nelle nostre aule: stretti tra crediti da erogare e competenze da far acquisire scopriamo sempre più spesso di dover rinunciare alla pratica del dibattere. Se si alza la mano in aula è per chiedere chiarimenti – e va benissimo, ci mancherebbe – ma è strutturalmente più difficile trovare dei varchi per esprimersi a tutto campo, per illustrare le proprie associazioni di idee e i nessi che ci sembra di poter cogliere tra una questione e un’altra.
Se è vero che i social media oggi stanno diventando uno dei luoghi della “conversazione” allora, forse, vale la pena di immaginarli come possibili alleati della formazione all’intelligenza critica e come sostegno al dibattere.
La conversazione non è ancora un dibattito ingaggiato, è una sorta di “preliminare” in cui le persone iniziano a conoscersi. Alle volte è proprio parlando, come si dice, “del più e del meno” che il profilo dell’altro si chiarisce e diventa pian piano più articolato: constatiamo che l’altro non è semplicemente riducibile ad una certa idea su un certo argomento. Proprio come non lo siamo noi. Forse il gran pregio di questa pratica è che, più si distende, più ci rendiamo conto della povertà delle nostre etichette onnicomprensive; più ci si frequenta, più sbiadiscono le categorie che scolpiscono il mondo a blocchi (progressisti, conservatori…) e via via rimangono i nomi propri: Caterina, Lorenzo, Sara, Tommaso… A quel punto può iniziare un dialogo capace di scendere in profondità: nell’alveo della conversazione possono svilupparsi più agevolmente il reciproco rispetto, la lealtà nel provare anzitutto a capirsi, la disponibilità a dividersi su questioni specifiche senza per questo diventare nemici. Nemica sarà, più chiaramente, solo l’ignoranza.
I social non sostituiscono, è chiaro, l’incontro dal vivo tra le persone. Però in qualche modo possono alimentare la promozione di modi di confrontarsi meno allarmati, meno gravati da diffidenza, da sospetti su chissà quali recondite e indicibili finalità animino chi ci sta di fronte o accanto. Basterebbe questo per renderli interessanti, anche dal punto di vista dell’esperienza universitaria.
#AuleAperte è una piccola sperimentazione. Ringrazio in particolare @rositauau e @GabrielePersi che mi hanno aiutato a considerare la possibilità che i social – e Twitter in particolare – non siano solo una gran perdita di tempo, ma luoghi da abitare anche da prof e con gli studenti (e non solo per scambiarsi informazioni utili). Senza pretese, possibilmente con un po’ di umorismo, tentando di raccontare quel che passa in aula. Tentando di bussare alla porta di altri colleghi, ma anche di altri amici che possano interagire, e lasciare un frammento amichevole della loro ricerca, delle loro passioni, delle loro informazioni e conoscenze.
È una sperimentazione e un po’ un cantiere: magari, strada facendo, troveremo modi migliori e diversi perché le aule non siano un luogo da cui fuggire al più presto, ma un ambiente – reale o digitale – in cui poter ritornare per riprendere qualche discorso.