«Quando il borghese dice: mia moglie, la mia macchina, le mie terre, quel che conta per lui, non sono la moglie, l’automobile, le terre, ma l’aggettivo possessivo che per lui prende carne». Erano gli anni Trenta, e Mounier (in Rivoluzione personalista e comunitaria) invitava a riflettere sulla mentalità che può nascondersi nell’uso dell'aggettivo possessivo, specialmente poi quando è riferito alle persone. Accade talvolta che dicendo "mia" o "mio", anziché avere in primo piano un legame di fedeltà all’altro/a, iniziamo ad indicare un possesso, un piacevole completamento di noi stessi. Nel 2004 il sociologo Marcel Gauchet ha pubblicato un interessante saggio dal titolo «Il figlio del desiderio», segnalando che questa torsione oggi investe il rapporto genitori-figli. Sta forse qui la nuova frontiera delle lotte per il riconoscimento della dignità dell’altro: sta proprio sulla soglia oltre cui "mio figlio", "mia figlia" diventano un completamento di noi stessi, come se "mio" significasse in fondo "per me". Stando su questa soglia, avanzo qualche pensiero su fecondazione eterologa. E dintorni.
Molti commentatori osservano oggi che il vero punto di svolta nella comprensione sociale del rapporto genitori-figli stia nella pratica della fecondazione artificiale in sé, omologa o eterologa che sia. Una volta codificato, più o meno apertamente, un “diritto al figlio” le distinzioni successive paiono questioni di lana caprina.
Da un punto di vista antropologico forse non è così: c’è un salto tra le due modalità che chiede di essere messo a fuoco, se non altro sollecitati come siamo dal ginepraio di contraddizioni a cui questo nuovo esperimento sociale ci sta esponendo. Ne richiamo solo una: la possibilità di chiedere di conoscere l’altro genitore biologico solo compiuti i 25 anni. Perché qui le cose sono due: o la pratica in questione non presenta controindicazioni in termini di identità e di elaborazione del sé, e allora il divieto è assurdo. Oppure stiamo certificando socialmente che la pratica è molto problematica, che temiamo le dinamiche che potrebbero scatenarsi – azzardo: dai 10 anni in su? – alla notizia o alla scoperta di somigliare ad un terzo escluso. E per questo cerchiamo di ingabbiare una domanda esistenziale, rendendola legalmente ammissibile solo ad una età più matura. Ad un’età a cui si arriverà, magari, con la fragilità e la rabbia di chi ha coltivato per più di un decennio un interrogativo strutturante dell’identità personale non potendo – per divieto civile – darvi risposta. Mi sembra un bel pasticcio e, ancora una volta, un modo della generazione di noi padri e madri di scaricare sul domani dei figli le proverbiali gatte che ci guardiamo bene dal pelare oggi.
Al di là delle contraddizioni sintomatiche, c’è un nodo di fondo che investe l’intero mondo delle cosiddette “relazioni corte” (quelle familiari prime tra tutte) e che non riguarda solo chi oggi immagina di ricorrere all’eterologa: è quella sorta di capriola che ci porta a intendere il "mio" – rivolto alle persone – come un marchio di possesso. È un rischio anche in altre relazioni a corto raggio: in certi frangenti anche il "mio" amico o il "mio" dipendente potrebbero smettere di essere anzitutto persone e diventare strumenti per i miei scopi, per la "mia" realizzazione. Qui tocchiamo una fragilità umana che sta ad indicarci appunto un nodo su cui tutti siamo costantemente sollecitati a lavorare, per non ridurci a dei consumatori di relazioni.
Rispetto a questo rischio però noi disponiamo anche di alcuni “fusibili naturali” proprio a protezione delle relazioni strutturali (quella di coppia e quella genitori-figli): un po’ come se avessimo dei rilevatori che saltano immediatamente quando il “mio” cessa di significare “io-per-te” e diventa un “tu-per-me”.
Nella relazione di coppia il fusibile naturale che, saltando, avverte che si sta scivolando verso un rapporto consumista è la simmetria tra i due. Alle volte, forse impropriamente, la chiamiamo "parità": è l’essere l’uno di fronte all’altra, entrambi capaci di intuire presto se la propria presenza è creativa e irriducibile o se inizia ad essere semplicemente piacevole e decorativa. La simmetria, il guardarsi diritto negli occhi è in fondo il richiamarsi ogni giorno al fatto che nel “noi” il “mio” significa in realtà “tuo”. Che tu sia mia moglie (o mio marito) significa anzitutto che io sono per te, non che tu sei per me. Quando la simmetria si infrange – non necessariamente in modo irreparabile, ci mancherebbe – quel che ciascuno avverte è anzitutto un crescendo di distanza. Perché subito ci allontaniamo quando percepiamo di essere trattati come un oggetto, come una “proprietà”, come «la mia automobile, la mia terra». Ci allontaniamo proprio perché avvertiamo che si sta innescando la deriva del possessivo, quella deriva in cui l’uno inizia a sentirsi padrone dell’altro, pretendendo di averlo/a a propria disposizione, ai propri ordini. Quando salta la simmetria tra i due, il “noi” si interrompe, e questo ci fa rendere subito conto che c’è un probabile guasto a monte da riparare, una slabbratura di cui prendersi cura. Va da sé che poi ci sono molti modi per bypassare un fusibile saltato, ma il fatto che ci sia e che in fondo costituisca un aiuto per una dimensione morale sempre in cantiere, non è da buttare.
Nella relazione genitori-figli il fusibile naturale non può essere la simmetria. Per definizione le posizioni sono asimmetriche, proprio come in altre forme della relazione: insegnante-allievo, medico-paziente… Su quale protezione naturale possiamo allora contare per mantenerci a distanza dal "mio" possessivo e avvertire quando ne varchiamo la soglia? Qui non vedo altro se non proprio il legame biologico: quella somiglianza che si trasmette nei geni, quel riconoscere qualcosa di se stessi nei figli, ce li fa sentire sì “nostri”, ma nel senso che “provengono da noi”. Il “mio” riferito a un figlio o a una figlia si declina originariamente così. Ed è proprio questo essere “sangue del proprio sangue” che in tutte le culture ha portato, tra l’altro, ad elaborare uno degli interdetti più antichi, quello dell’incesto: non a caso uno dei divieti simbolici più potenti che conosciamo, e che sta a dirci che quel che “proviene da noi” non è “per noi”. I genitori sono a protezione e a servizio dei figli, non questi a completamento o a diletto di chi li ha messi al mondo. In fondo ancora oggi tutti avvertiamo bene la potenza del fusibile affidato al legame biologico: poche cose ci appaiono più odiose e aberranti della violenza sui minori entro le mura domestiche. Di fronte a queste vicende tutti intuiamo che è saltato qualcosa di fondamentale.
Il legame biologico è cioè qualcosa che indirizza profondamente il nostro sguardo verso i figli e che, in modo molto ordinario e con un minimo di attenzione morale, fa maturare quella capacità di stare nelle relazioni con tutti, essendo un po’ più riparati dalla tentazione del consumo e dalle sue derive. Non è cosa da poco affrontare le sfide della maturazione morale potendo contare su un fusibile pronto a saltare, a lanciare il suo avvertimento.
Quanto questo sguardo di donazione sia laborioso da apprendere altrimenti che con la genetica, lo sanno tutte le coppie che non potendo concepire figli propri scelgono di prendersi cura dei figli di altri: quanta formazione, quante verifiche sociali tutte tese – almeno idealmente – ad assicurarsi che in una richiesta di adozione o di affido non ci sia l’ombra del possesso, ma la luce del servizio e del dono. In fondo, con tutto questo, quel che la società prova a fare è proprio introdurre un altro fusibile, un altro modo – fatto di consapevolezza, di richiesta di impegno, di percorsi… – per proteggere dalla capriola deleteria del “mio” possessivo.
Con la fecondazione eterologa ci siamo concessi il lusso di bypassare il fusibile biologico senza preoccuparci di elaborare un nuovo e diverso fusibile sociale. Non abbiamo considerato a sufficienza che questo esperimento sociale chiederà ai futuri genitori la maturità morale di affrontare da un lato pesanti domande esistenziali e, dall’altro, di coltivare in se stessi forti anticorpi verso la logica del possesso, senza alcun fusibile naturale o sociale a propria disposizione. Per chi inizia l’avventura genitoriale nel nome del proprio diritto al figlio mi sembra una strada fortemente in salita.
Sono, oggi, tra coloro che si augurano che si possa tornare indietro da questo azzardo antropologico e sociale. Ma sono anche tra quelli che, andando diversamente le cose, vorrebbero almeno che fosse riconosciuta la necessità di un accompagnamento e di una formazione dedicata per chi intraprende questa strada. Perché a togliere i fusibili e a far come se niente fosse, si finisce spesso per esporsi al rischio di incendi indomabili.