Alla XV Assemblea Nazionale elettiva dell'Azione Cattolica (30 aprile - 3 maggio 2014) l’espressione più gettonata è stata “in uscita”, una modalità di essere Chiesa coniata – neanche a dirlo –
da papa Francesco.
Vorrei spendere qualche parola di commento per provare a distendere l’analisi sugli scenari che si aprono, cercando di “uscire” il più possibile dall’“ecclesialese”.
La parola-chiave, “in uscita”, mi pare porti in primo piano una questione di modi e non di contenuti. Pongo la cosa in modo netto: perché a Roma nelle diverse esortazioni ai Delegati
(dell’Assistente Generale, del Segretario Generale della CEI e poi, in chiusura, di papa Francesco) non si è più riproposta l'espressione "principi non negoziabili"? Non perché le convinzioni di
base siano cambiate, ma anzitutto perché ha raggiunto massa critica la percezione che il grande tema è come colmare la distanza tra le macro-intuizioni vitali (valori e punti di riferimento) e il
micro-svolgimento della storia di ciascuno (problematiche concrete, quotidiane, prosaiche).
La questione reale è stata posta chiaramente: in che modo favorire questo ricongiungimento?
Su questo versante, anche grazie all’impulso di papa Francesco, si sta profilando una svolta importante, almeno per l’Italia: si è ristabilito che i primi interlocutori con cui “legare” (anche sui “grandi temi”) non sono i legislatori, ma gli uomini e le donne che attraversano esperienze di fatica, di abbandono o anche semplicemente di scoraggiamento.
Perché si tratta di una svolta? Non certo nel senso che finora i cristiani non siano stati a fianco e a sostegno dell’umanità più fragile: a livello pratico la cosiddetta “scelta preferenziale per i poveri” non solo non è mai stata in discussione, ma è anzi proprio il volto ordinario e concreto della Chiesa cattolica. Il volto della Chiesa dei parroci che raccolgono e distribuiscono, dei parrocchiani che offrono tempo e danari alla Caritas e alla San Vincenzo. Il cambiamento non sta qui.
La svolta, dicevo, non riguarda né le proposte di fondo né la prassi del quotidiano (che semmai va intensificata ed estesa): riguarda appunto il modo di porsi nel contesto della società contemporanea.
Nella scelta di rivolgersi anzitutto alla gente c’è il riconoscimento che i primi attori del cambiamento, non solo personale ma anche sociale, sono le donne e gli uomini immersi nei problemi della vita, non i (pochi) legislatori. Il cambiamento comincia cioè dalla mobilitazione delicata ma coinvolgente delle coscienze, non dalla promulgazione delle leggi civili.
A chi immaginava che l’accostamento tra macro-intuizioni e micro-svolgimento della vita si potesse sostenere anzitutto preoccupandosi di incidere sull’ordinamento giuridico della polis, oggi si fa notare che si tratta di una via inefficace e dispendiosa. Quel modo muscolare di entrare in rapporto con la società, mobilitando la piazza per mostrare ai decisori politici di avere i numeri per decidere delle loro sorti, comincia a mostrare i propri limiti: «Cosa volete che se ne faccia oggi il nostro mondo di una Chiesa che non trova di meglio, in alcune circostanze, che investire energie (troppe energie) per mettere su adunate che hanno ripetutamente mostrato il fiato corto e che alla lunga si sono mostrate assolutamente inconcludenti?». A dirlo è il Segretario Generale della CEI, mons. Galantino. Non è questa la via maestra per promuovere valori e stili di vita, fossero anche i più sacrosanti. Per non dire dell’effetto antipatia che generano certi modi di proporsi: quando il registro è quello della rivendicazione non c’è ascolto possibile, e senza aprire lo spazio dell’ascolto reciproco non esiste relazione, non si può essere compagni di viaggio. Nessuno di noi ha interesse ad interagire con chi ha solo cose da affermare o non è disponibile a visitare le nostre strade.
Solo perché quel che i cristiani desiderano raccontare è il Vangelo dovrebbero essere sospese le dinamiche ordinarie dell’incontro interpersonale?
Questo è ciò che con sempre maggiore insistenza molti laici cristiani hanno fatto osservare, specialmente (ma non solo) dall’Azione Cattolica: certi modi di fare e di proporsi stavano riducendo insensatamente gli spazi di lavoro con chi le fatiche le attraversa in modo intenso, e pure con le famose persone “di buona volontà”. La Chiesa rischiava di essere sempre più percepita come una presenza-contro anziché come una presenza-incontro.
Cercare, anche sul versante della parola pubblica, la via dell’incontro con la gente, stabilire come interlocutori privilegiati quanti i problemi li attraversano concretamente e non direttamente quanti li dovrebbero risolvere in chiave generale, rappresenta allora, a mio parere, la svolta: è un modo diverso di promuovere il raccordo tra il macro e il micro e di interpretare la presenza dei cristiani nella società contemporanea.
Questo cambiamento, che non può essere ridotto ad una sorta di restyling comunicativo, apre a due interessanti sviluppi, tutti da esplorare, naturalmente.
Il primo mi sembra possa essere questo: rivolgersi in primis al cuore delle problematiche e delle persone che le attraversano anziché ai luoghi della legge, della politica e del potere significa imprimere all’azione sociale della Chiesa un movimento essenzialmente di tipo ricostruttivo. Come dire: il Bene Comune si afferma per via di ri-costruzione, anziché, in prima battuta, per via di costruzione. Non c’è una società nuova da inventare, una nuova cristianità: c’è piuttosto una buona convivenza possibile ma sempre esposta al collasso e, per questo, da risanare senza sosta. Questo non significa ritagliarsi un ruolo sociale residuale (a meno di non pensare che il fatto di avere qualcosa da ri-costruire, da ri-tessere, da ri-conciliare sia un’esperienza umana residuale) ma al contrario porre all’attenzione di tutti un problema antropologico capitale: quello della nostra capacità di ricucire le lacerazioni del tessuto civile e sociale. È, in altri termini, il tema di una pace diversa da quella tregua in armi, che sempre più spesso caratterizza i rapporti ordinari tra persone, gruppi sociali e Paesi.
Questa attitudine ricostruttiva e curativa non è residuale neppure in un’ottica teologica: nella letteratura cristiana dei primi secoli Cristo era presentato diffusamente attraverso l’immagine del medico, di colui che appunto si piega sulle ferite, guarisce e risana. Quel grande capolavoro teologico che è la Lettera agli Ebrei presenta chiaramente Gesù Cristo come l’unico capace di realizzare quel che il culto antico non avrebbe mai potuto compiere: la riconciliazione tra l’uomo e Dio, il risanamento di una relazione vitale ma infranta. I cristiani a loro volta sono chiamati a palesarsi socialmente nei diversi volti della riconciliazione.
In questa prospettiva l’azione della Chiesa può diventare ancor più fortemente segno eloquente di quel che annuncia, evitando il rischio di ridursi – come ripete spesso papa Francesco – ad una ONG caritatevole. Farsi capofila in esperienze di ricostruzione e di riconciliazione – le più difficili da realizzare, lo sappiamo tutti – è il modo forse più creativo e propositivo per raccontare la novità di Cristo e del cristianesimo.
Il secondo sviluppo interessante mi sembra poi che possa riguardare l’apporto costruttivo dei cattolici al Bene Comune. Anche questo non viene meno, ma riporta in primo piano l’azione diffusa del laicato, come avrebbe voluto Maritain e come, molto più autorevolmente, ha indicato il Concilio Vaticano II: ai laici è chiesto di contribuire da cristiani, anche in forma organizzata, alla costruzione della vita buona nella polis, impegnando se stessi nelle questioni politiche e legislative, nei tavoli competenti. Su questo fronte la novità più rilevante consisterebbe nello sviluppo di un dibattito politico interno alla comunità cristiana (in “codice” si chiama “discernimento comunitario”): vescovi e formatori che discutono con i politici cattolici, li richiamano all’essenziale, ai fondamenti ed insieme raccolgono da loro il senso della complessità, delle contraddizioni storiche, degli spazi possibili di mediazione. Senza realizzare frettolosi bypass di quanti operano sulle frontiere, per interloquire direttamente con i detentori del potere di turno, attraverso le diverse vetrine mediatiche.
Dietro all’idea di una Chiesa “in uscita”, concentrata in primis sull’annuncio della misericordia di Dio, rivolta in primis alla gente che ne avverte il bisogno e il richiamo, credo ci siano questi sommovimenti – e probabilmente non solo questi –. In Italia potrebbe trattarsi di uno sviluppo interessante, a patto di non considerare questo snodo come un fulmine a ciel sereno: è la maturazione di una riflessione lunga, alimentata pacatamente ma con convinzione dal laicato associato e da molti vescovi e sacerdoti, e che indubbiamente oggi ha trovato un catalizzatore nell’impulso di papa Francesco.
La Chiesa in Italia saprà correre gli inevitabili rischi di questo movimento di “uscita”?
Nei prossimi tempi tutti dovremo misurarci con il nostro timore di incorrere in incidenti – l’immagine della Chiesa "incidentata" da preferire a quella chiusa e ammuffita è sempre di papa Francesco – e provare a prendere il largo.